C’era una volta il calcio. O forse completamente non c’è davvero mai stato. Senza dubbio c’è stato il tempo delle tribune piene, delle imprese epiche che infiammavano non solo i grandi stadi italiani, ma anche e soprattutto le piccole arene di provincia.
Oggi è finito tutto. Si può perdere 20 a 0 in Lega Pro alla faccia della dignità, si può bleffare sui conti come un pessimo giocatore di Monopoli in eccellenza e si può persino chiamare autobotti e generatori per accedere luci e acqua in strutture completamente abbandonate al loro destino.
Non rimane davvero più niente tra le mani. Non c’è salvezza per un mondo del pallone che non è in grado di capire l’importanza dei settori giovanili. Che l’educazione conta più della tecnica, che la passione di un piccolo calciatore è più forte e più importante di quella di un Presidente.
I giovani poi. Questo paese è pratico di giovani. Considerati una generazione di buoni a nulla, che però, quando c’è bisogno di mandarli in campo allo sbaraglio per prendere 20 pappine o per evitare penalizzazioni e radiazioni, allora, diventa la più grande risorsa del mondo.
La realtà però è che bisogna piangere in ginocchio per far arrivare uno di questi ragazzi in prima squadra. Farlo crescere, credere in lui, seguirlo supportarlo e infine farlo arrivare lassù, in prima squadra. Dalla serie A alla prima Categoria.
Sarebbe bello che una società di calcio diventasse ciò per cui ha sudato, ciò su cui ha investito. Pochi soldi, solo esperienza, competenza e voglia di spendere a vantaggio del proprio capitale umano. Di questo passo ne vedremo ancora di mondiali alla tv. E allora forse dobbiamo ritrovare l’essenza. Ritornare a giocare negli oratori e nei campetti, perché nelle strade non si può più, prima che lo sport più bello del mondo smetta di esserlo del tutto.